Due città per cui è giunto “Il Tempo della Cura”: le scenografie di Enzo Mologni per Bergamo Brescia
Una tragedia enorme quella della pandemia che si è abbattuta su Bergamo e Brescia con particolare durezza, ma è giunto il tempo di rialzarsi. Come possono queste due popolazioni prendersi cura di loro stesse e di chi, durante i mesi più bui, si è preso cura di loro? La cultura e il teatro si rendono protagonisti di una nuova fase di rinascita, quella dell’ascolto delle emozioni.
Vi raccontiamo qualcosa di più di Enzo Mologni, docente di Scenografia e tutor di Scuola, che fuori-classe è professionista, artista e direttore artistico dell’Associazione Culturale Albanoarte Teatro.
Enzo ci accoglie nel salotto di casa sua, proprio mentre sfoglia un numero dell’Eco di Bergamo che ripercorre, a più pagine, le fasi che hanno condotto alla prima, ormai prossima, dello spettacolo a cui il professore ha lavorato. “Giorni muti, notti bianche” sarà presentato il 16 marzo al Teatro Sociale di Bergamo.
Enzo Mologni, raccontaci un po’ di te, della tua passione per il teatro, di come sei arrivato fino a qui!
Ho iniziato a fare teatro un po’ come tutti quelli che iniziano ad avvicinarsi a questo mondo, nel teatro dell’oratorio. Nel mio paese c’era un bellissimo spazio con una compagnia teatrale amatoriale e mio zio ne era regista. Così in terza media ho iniziato ad avere dei piccoli ruoli e mi sono appassionato moltissimo, tanto che sapevo a memoria la parte di tutti i personaggi.
Da lì la strada è stata veramente breve. Il Liceo Artistico mi ha dato competenze in merito alla composizione dello spazio, bidimensionale e tridimensionale, e il passaggio all’Accademia di Brera è stato naturale: io volevo studiare scenografia.
Qui ha avuto la possibilità di esercitarsi, di diventare assistente di Enrico Mulazzani con cui, insieme agli studenti, realizzava anche degli spettacoli. Nel frattempo, nel 2012, è diventato direttore artistico dell’Associazione Culturale Albanoarte Teatro con cui organizza rassegne teatrali con professionisti da tutta Italia, compagnie sperimentali, anche europee.
Parallelamente al mio lavoro in Associazione, crescendo, ho iniziato ad insegnare ufficialmente, prima a Brera, poi a Verona e poi è arrivata la proposta di Accademia SantaGiulia dove ho avuto la possibilità di crescere, passando dall’insegnamento della Scenografia al tutoraggio e alla gestione di progetti.
E il tuo lavoro?
Tra Associazione e insegnamento, si è sviluppata anche la mia carriera di professionista: man mano guadagni competenze, conosci persone, fai capire quanto il tuo modo di lavorare sia credibile ed affidabile e così cominciano ad arrivarti i progetti. La prima fase è stata di gavetta totale, dall’installazione artistica nel museo alla scenografia per i piccoli teatri, fino ad arrivare alla scenografia per grandi produzioni.
Il lavoro arriva e capita; ti ritrovi a fare sei ore di macchina per arrivare a Rijeka a Ferragosto e andare a conoscere un’associazione di danza durante le prove in residenza per inventare con loro la scenografia.
Entriamo nel merito di Bergamo Brescia.
Bergamo Brescia è stato un progetto in cui tutti, bergamaschi e bresciani, associazioni e professionisti, hanno sperato di riuscire a entrare.
Il progetto “Il Tempo della Cura” è stato presentato dal Centro Isadora Duncan che ha collaborato con i medici e gli infermieri del pronto soccorso del Papa Giovanni XXIII di Bergamo grazie a un laboratorio con la regista, Silvia Briozzo, che si occupa di teatro sociale in contesti esperienziali. Il fatto che il teatro e la sanità si siano uniti è abbastanza naturale perché si curano le persone in modi diversi e in quel momento i medici avevano bisogno di esternare le proprie emozioni e di riuscire, tramite il teatro, a vivere quel dramma che avevano vissuto per restituirlo alla gente con le parole giuste.
Così, le loro parole sono diventate un testo teatrale, forte ed emozionante che, attraverso monologhi, dialoghi o coreografie, restituisce al pubblico quello che è stato quel periodo.
Cosa vuol dire creare una scenografia per uno spettacolo di questo genere?
Talvolta vuole dire essere ingombrante: la scenografia crea qualcosa di artefatto, propone sul palco delle immagini, degli ambienti che possono essere sia astratti che realistici. In questo caso, il realismo è già portato in scena da quelle che sono le memorie vissute. Non c’era quindi bisogno di ricreare un ambiente ospedaliero. Il racconto è già completo così, con le immagini che loro evocano. L’idea è stata quella di dividere il palcoscenico nelle azioni e nei movimenti che gli attori compiono senza costruire qualcosa di finto, irrispettoso di quello che viene raccontato.
Partendo dal concetto di “dare loro la voce”, Enzo Mologni ha proposto di utilizzare i microfoni come elemento scenico per riempire lo spazio. Durante lo spettacolo gli attori sposteranno gli strumenti di scena e le aste e con i loro movimenti creeranno l’ambiente giusto per il racconto. Fondere e riequilibrare arte e sanità, questo l’obiettivo: mentre il teatro era chiuso e fermo in pieno lockdown, gli ospedali erano sovraffollati e allo stremo delle forze.
Cosa porti della tua esperienza professionale in aula?
Il contemporaneo richiede che ci sia un messaggio chiaro in tutto quello che viene messo in scena e i ragazzi richiedono sempre che qualcuno li ascolti, che gli venga dato un palco su cui possano salire e dire “Io penso questo”. Io continuo ad incalzarli: “Perché fai così?”, “Perché hai messo questo?”, quasi fino all’ossessione.
Preferisco un ragazzo che con coraggio mi propone un’idea, anche fastidiosa, controcorrente, politicamente scorretta, una visione scottante, che però è sua! Io con loro lavoro affinché questo messaggio arrivi nella maniera giusta, ragionando sul concetto da mettere in scena perchè la scenografia risvegli negli spettatori un’emozione in linea con quella che lo scenografo voleva suscitare.
Mi concentro sul far uscire la loro mano, la loro riconoscibilità, che non vuol dire utilizzare i metodi digitali in maniera perfetta e piatta, ma di far emergere le proprie peculiarità, il proprio stile: essere graffiante, sognante, espressionista, concettuale, realistico.
Dal lavoro singolo si passa poi ai lavori di gruppo perché il teatro è un lavoro in team: negli allestimenti, nella progettazione degli stand e dei grandi eventi. Ognuno ha una sua peculiarità all’interno del progetto ed è necessario essere in grado di dialogare senza sopravanzare gli altri. Così i ragazzi imparano il bello e il brutto del lavoro in teatro, chiaramente in un contesto sempre protetto.
Quali stimoli ricevi invece stando in classe dai ragazzi?
Chiaramente lo scambio non è a senso unico: io regalo a loro e di conseguenza loro danno tanto a me. Mi portano le novità, i gusti, in contesti sia importanti che frivoli perché per il nostro mondo tutto è umanità, è utile e diventa una grande enciclopedia da cui prendere gli argomenti giusti. Il mio lavoro in classe è ricerca e mi è di grande stimolo. Queste nuove generazioni saranno gli spettatori e i lavoratori del mondo dello spettacolo del futuro. A volte ci facciamo delle grandi risate perché io essendo boomer ho scarsa conoscenza degli gli aspetti social in cui invece i ragazzi sono più forti e allora lascio loro la soddisfazione della vittoria.
Enzo Mologni, un consiglio per i tuoi studenti?
Non addormentatevi! Non lasciatevi ammaliare dalle sirene come Ulisse: i soldi, la ricerca del successo, la notorietà. Altre sirene sono “chi sarò io in questo mondo?”, facendosi così tante domande da addormentarsi per la fatica del non aver risposte. Quindi il mio suggerimento è quello di cercare piano piano di trovare uno spazio nel mondo e di arrivarci consapevoli!
Ufficio Comunicazione & Ufficio Orientamento
Accademia SantaGiulia
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