Pezzi da museo ispirati da Stefano Arienti
Fare a pezzi il museo non è esattamente ciò che il Museo Civico Goffredo Bellini di Asola (MN) aveva in mente quando ci ha dato la possibilità di progettare e realizzare un laboratorio all’interno delle sue sale rivolto ad una classe seconda della Scuola Primaria di Asola.
Incontro con l’Artista
Eppure è andata proprio così, ma soltanto metaforicamente; galeotto fu il workshop dell’1 aprile organizzato dal museo e il successivo incontro-intervista con Stefano Arienti, artista conosciuto a livello internazionale e nativo della cittadina mantovana.
Questa è stata infatti l’occasione per noi di conoscere un po’ più da vicino un grande artista, di partecipare attivamente ad un suo workshop inseguendo le ombre – fornite dagli elementi di un parco – su un foglio, di osservare il suo modo di lavorare e, successivamente, di prenderci del tempo per parlare con lui, porgli delle domande e scoprire qualcosa in più sul suo fare arte.
FOCUS intervista a Stefano Arienti dopo il workshop dell'1/4/2019 1. Come ha fatto a diventare artista e come ha iniziato? Ci vuole un’enorme determinazione, ricordatevi sempre che la didattica ha bisogno di questo, è come un attore che è sempre sul palco e deve avere il rapporto con il pubblico e deve calarsi nel personaggio. Sono un’autodidatta nella didattica. Sono stato chiamato ad insegnare per la prima volta all’Accademia Carrara di Bergamo, dieci anni allo IUAV e nel frattempo per altre 1000 esperienze, per istituzioni, per esterni e come docente a contratto imparando sul campo. Ho sempre cercato di stimolare agli studenti le cose ed a sintonizzarsi sui riferimenti di qualità che io consideravo già fatti come andare a vedere le mostre ed a confrontarsi con i grandi maestri come Luciano Fabbro ma c’è un rischio: che questo sistema funzioni solo con quei pochi che hanno la capacità di reagire fortemente perché hanno una personalità molto forte. Mentre è più difficile cercare di seguire un punto di riferimento, quindi si deve stimolare l’autodidattica. L’autodidattica è un termine che ho coniato per riconoscere in sé stessi delle possibilità di miglioramento dello sviluppo positivo che sono la risposta positiva ai propri interlocutori. Io sono capace di condurre laboratori di ricerca come quelli a Palazzo Te a Mantova ma non sono capace di fare corsi di cattedra anche se potrei farlo ma non l’ho mai fatto. Per tanto cerco di fare quello che ho imparato con il tempo e ho avuto persone molto brave che sono andato a vedere per conoscere le loro attività e come si approcciavano. Io non faccio l’artista ma ho avuto modo di capire tramite le persone che mi hanno insegnato ad esserlo che erano delle persone più grandi di me. Mi sono laureato in Agraria a Milano e mi piaceva l’arte ma non conoscevo quella contemporanea, ho scoperto e ho conosciuto delle persone a me molto care d qui è nata la possibilità di stimolare e confrontarsi con la mia arte. Le scelte di portare a compimento il progetto sei tu che lo devi stabilire perché sono le tue scelte e io non mi devo permettere di contestarle perché il mio è solo un parere esterno. 2. Rispetto ad Antipolvere, qual è secondo lei l’elemento più improntate su cui far riflettere i bambini? Non c’è un elemento vero e proprio che mi ha guidato, diciamo che il materiale antipolvere nasce da una contingenza molto precisa che ho utilizzato per il Palazzo Ducale di Santa Croce, è la prima volta che ho usato l’antipolvere è l’opera più grande di venticinque metri quadri di opera. Ho usato l’anti polvere perché dopo i restauri esisteva una parete interna che era stata lasciata senza rivestimento e l’impresa di restauro aveva deciso di mantenere a vista i mattoni come memoria di un edificio mistico hanno tolto i rivestimenti che erano stati aggiunti. Allora ho pensato di fare una mostra temporanea qui dentro e faccio un intervento che copra questa parete, ho utilizzato degli inchiostri metallici come l’oro fino ad utilizzare l’argento e il rame come qui ad Asola.
FOCUS intervista a Stefano Arienti dopo il workshop dell'1/4/2019 1. Come ha fatto a diventare artista e come ha iniziato? Ci vuole un’enorme determinazione, ricordatevi sempre che la didattica ha bisogno di questo, è come un attore che è sempre sul palco e deve avere il rapporto con il pubblico e deve calarsi nel personaggio. Sono un’autodidatta nella didattica. Sono stato chiamato ad insegnare per la prima volta all’Accademia Carrara di Bergamo, dieci anni allo IUAV e nel frattempo per altre 1000 esperienze, per istituzioni, per esterni e come docente a contratto imparando sul campo. Ho sempre cercato di stimolare agli studenti le cose ed a sintonizzarsi sui riferimenti di qualità che io consideravo già fatti come andare a vedere le mostre ed a confrontarsi con i grandi maestri come Luciano Fabbro ma c’è un rischio: che questo sistema funzioni solo con quei pochi che hanno la capacità di reagire fortemente perché hanno una personalità molto forte. Mentre è più difficile cercare di seguire un punto di riferimento, quindi si deve stimolare l’autodidattica. L’autodidattica è un termine che ho coniato per riconoscere in sé stessi delle possibilità di miglioramento dello sviluppo positivo che sono la risposta positiva ai propri interlocutori. Io sono capace di condurre laboratori di ricerca come quelli a Palazzo Te a Mantova ma non sono capace di fare corsi di cattedra anche se potrei farlo ma non l’ho mai fatto. Per tanto cerco di fare quello che ho imparato con il tempo e ho avuto persone molto brave che sono andato a vedere per conoscere le loro attività e come si approcciavano. Io non faccio l’artista ma ho avuto modo di capire tramite le persone che mi hanno insegnato ad esserlo che erano delle persone più grandi di me. Mi sono laureato in Agraria a Milano e mi piaceva l’arte ma non conoscevo quella contemporanea, ho scoperto e ho conosciuto delle persone a me molto care d qui è nata la possibilità di stimolare e confrontarsi con la mia arte. Le scelte di portare a compimento il progetto sei tu che lo devi stabilire perché sono le tue scelte e io non mi devo permettere di contestarle perché il mio è solo un parere esterno. 2. Rispetto ad Antipolvere, qual è secondo lei l’elemento più improntate su cui far riflettere i bambini? Non c’è un elemento vero e proprio che mi ha guidato, diciamo che il materiale antipolvere nasce da una contingenza molto precisa che ho utilizzato per il Palazzo Ducale di Santa Croce, è la prima volta che ho usato l’antipolvere è l’opera più grande di venticinque metri quadri di opera. Ho usato l’anti polvere perché dopo i restauri esisteva una parete interna che era stata lasciata senza rivestimento e l’impresa di restauro aveva deciso di mantenere a vista i mattoni come memoria di un edificio mistico hanno tolto i rivestimenti che erano stati aggiunti. Allora ho pensato di fare una mostra temporanea qui dentro e faccio un intervento che copra questa parete, ho utilizzato degli inchiostri metallici come l’oro fino ad utilizzare l’argento e il rame come qui ad Asola
Pezzi da museo
Riallacciandoci a questa straordinaria esperienza, guidati dalla docente Damiana Gatti, abbiamo progettato un laboratorio didattico partendo dalle opere Sant’Andrea e Sant’Erasmo che Stefano Arienti, nel 2017, ha donato al Museo Civico di Asola e che oggi si trovano esposte al suo interno.
Si tratta della riproposizione su teli anti polvere delle immagini dei due Santi presa in prestito dai dipinti di Romanino che si trovano sul retro delle ante dell’organo della Cattedrale di Asola e che quindi non sono visibili.
A prescindere dal tema e dai soggetti rappresentati, ciò che fin da subito ci ha colpito di queste opere è stato il processo da cui l’Artista è partito per realizzarla: proiettando alcune fotografie dell’opera originale di Romanino – sui teli anti polvere appunto – ha ricalcato con degli inchiostri metallici le linee principali, reinterpretando secondo la sua sensibilità le figure di questi due Santi.
Questo, dunque, è stato lo spunto iniziale, nonché l’ispirazione, per il nostro laboratorio Pezzi da museo.
L’anima del laboratorio didattico ispirato ad Arienti
Già all’interno del titolo è racchiusa la sua anima: accompagnare i bambini alla scoperta di tutti quei piccoli dettagli, o “pezzi”, presenti nel museo, sulle pareti, a terra o sui pannelli esplicativi, che talvolta passano inosservati all’occhio del visitatore meno attento, e che quindi ci sono, ma non sempre si vedono.
I bambini, dopo un iniziale momento di accoglienza, si sono divisi fra le sale del museo alla ricerca dei dettagli per loro più significativi, ricalcandoli e successivamente destrutturando le immagini prodotte per unire e dare forma a tutti quei piccoli frammenti apparentemente invisibili che vivono nel museo, in una sorta di puzzle creato con le tessere realizzate da bambini diversi.
Alla fine di questa esperienza si è scoperto anche il significato del titolo Pezzi da museo: da una parte fa riferimento a tutte quelle opere d’arte che talvolta vengono definite tali per esaltare il loro valore artistico ed innalzare la loro dignità facendo leva sul fatto che le opere conservate all’interno dei musei hanno già di per sé una loro importanza anche semplicemente per la ragione di essere in essi esposte; dall’altra parte, invece, si riferisce all’idea di fare a pezzi il museo, intesa metaforicamente come l’esplorare il museo nelle sue piccole e spesso inosservate parti, in un certo senso scomponendolo e concentrandosi sui dettagli dando a quest’ultimi l’attenzione che meritano.
L’esperienza
L’esperienza è stata estremamente ricca, tanto da indurci a far trascorrere una settimana prima di riparlarne insieme, condividendo le riflessioni e le impressioni riguardo al laboratorio.
Alcune parole possono ben riassumere l’intera esperienza: lineare e consapevole per il suo svolgimento, inaspettata per i risultati prodotti che non erano stati preventivati, processo, ricerca ed evoluzione per il lungo e approfondito lavoro svolto per la sua progettazione e per evitare di cadere nel solito lavoretto, tanto odiato dagli addetti ai lavori, punti di vista e riscoperta per il suo carattere mobile e per la sua possibilità data ai bambini di riscoprire il museo attraverso i suoi dettagli nascosti.
A posteriori ci siamo resi conto anche di alcuni aspetti che avremmo potuto gestire meglio o che avremmo potuto senz’altro migliorare.
Ma non tutto è andato perso!
Infatti, lunedì 20 maggio, grazie alla curiosità del docente Angelo Vigo e dei suoi studenti di Didattica dell’arte per i musei del terzo anno, è stato proposto loro lo stesso laboratorio. È stata l’occasione per confrontarci con un target diverso, caratterizzato da persone adulte. I ragazzi ci hanno aiutato nuovamente a migliorare e perfezionare il metodo partendo dall’esperienza vissuta insieme.
Gli studenti del II anno del biennio di Comunicazione e didattica dell’arte
Ringraziamo il Comune di Asola e il Museo civico Bellini per l’accoglienza, Stefano Arienti per il tempo e la grande disponibilità, Luisa Bartoli dirigente dell’istituto Comprensivo di Asola, la maestra Paola Piva e i bambini di 2°A della scuola primaria di Asola.
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