Archeologia industriale: le company town e il loro futuro
Tutti ci siamo stupiti di fronte alle maestose chiese delle nostre città, o ai possenti castelli che punteggiano le montagne italiane, tornando con la mente indietro nel tempo agli anni più fiorenti della loro storia. Ma esiste un capitolo del nostro passato che spesso e volentieri resta nascosto o viene completamente ignorato. Si tratta del patrimonio dei siti produttivi dismessi, meglio noto come “archeologia industriale”.
Un settore che comincia a godere oggi di una certa fama ma che fino a pochi anni fa era semplicemente considerato come “bruttezza del paesaggio”.
In questo articolo capiremo qualcosa di più sull’archeologia industriale e scopriremo come strutture e impianti possano tornare a una nuova vita e persino arricchire il territorio.
Cos’è l’archeologia industriale?
Tutti abbiamo in mente la figura dell’archeologo che, armato di spazzola e
cazzuola, riporta alla luce i grandi dinosauri o le antiche città perdute. Proprio allo stesso modo, l’archeologia industriale è la scienza che si occupa di riscoprire e valorizzare i grandi impianti industriali in disuso che fanno parte della storia di una comunità.
Questa materia nasce negli anni Cinquanta del 900 nel paese che per primo aveva vissuto la rivoluzione industriale, ovvero l’Inghilterra. La disciplina studia non tanto gli edifici e i macchinari arrugginiti, ma gli aspetti sociali e umani che facevano muovere queste grandi fabbriche, come ben spiegato nel sito dell’associazione italiana per il patrimonio archeologico industriale.
Le company town
Uno degli aspetti più affascinanti dell’archeologia industriale è sicuramente
quello delle company town o per meglio dire le città aziendali: vere e proprie comunità nate e cresciute attorno a una fabbrica.
Spesso il proprietario, per andare incontro alle necessità degli operai e aumentarne la produttività, faceva costruire un villaggio autosufficiente in cui i suoi dipendenti potessero vivere e lavorare. Questa idea ha visto grande diffusione nei paesi del nord Europa come in Belgio e Inghilterra, ma si è poi allargata fino ad arrivare anche in Italia.
Non sempre però gli imprenditori seguivano un “paternalismo illuminato”,
ovvero una filosofia di benessere dei dipendenti, e talvolta le cittadine
assomigliavano a vere e proprie prigioni controllate dal proprietario.
Un esempio è la cittadina industriale di Campione del Garda. Posizionata su una penisola che si estende nel Lago di Garda, fino agli anni ’30 rimase
irraggiungibile. Questo permise a Vittorio Olcese, amministratore delegato della fabbrica, di esercitare un potere quasi dittatoriale sui dipendenti che non potendosene andare si rassegnavano al lavoro in azienda.
Tanti altri industriali, invece, convinti che la salute dell’operaio fosse benessere per l’azienda, sono stati capaci di dar vita a piccoli propri paradisi lavorativi: Alessandro Rossi, Silvio Crespi, Enrico Mattei sono alcuni dei nomi che hanno fatto della company town un modello lavorativo e abitativo d’eccellenza.
Alcuni esempi degni di nota
Alcune company town sono diventate veri e propri gioielli del paesaggio
italiano, ricevendo addirittura il titolo di patrimonio UNESCO.
Vediamo alcuni esempi.
Crespi D’Adda
La cittadina nacque vicino a Bergamo nel 1875, grazie al lavoro dell’imprenditore di tessuti Cristoforo Benigno Crespi. Attorno al grande opificio per la produzione di tessuti, l’imprenditore fece costruire un gran numero di ville e case a schiera per ospitare tutte le famiglie dei dipendenti. Un piccolo paese completamente autonomo e indipendente in cui la vita quotidiana si svolgeva in armonia. Grandi architetti italiani hanno supportato Cristoforo Crespi nel progettare la sua città ideale, dove troviamo addirittura un castello padronale e un cimitero monumentale.
Le piccole villette per gli operai sono state pro- gettate considerando le loro origini agricole così da farli sentire a loro agio il più possibile. Dal 1995 Crespi d’Adda è patrimonio UNESCO come migliore esempio conservato di company town nel sud Europa. Questo ha permesso alla cittadina ormai dimenticata di tornare a essere un centro d’interesse per i visitatori più curiosi. Grazie alla vasta offerta di visite guidate si possono scoprire tutte le curiosità entrando nel vero cuore produttivo di un’epoca passata.
Corte di Cadore
I figli dei dipendenti Eni in Villeggiatura a Corte di Cadore davanti alla grande colonia.
Nel 1954 il presidente dell’Eni Enrico Mattei avviò la costruzione di un paese autosufficiente, nel quale accogliere i dipendenti Eni nei periodi di vacanza. Il Villaggio è Corte di Cadore e si trova alle pendici del monte Antelao nella zona del Bellunese. Questo caso non è legato direttamente a una fabbrica, ma rappresenta un esempio fantastico di architettura alpina e benessere aziendale. Gli architetti Edoardo Gellner e Carlo Scarpa progettarono case vacanza unifamiliari, alberghi e persino una chiesa e una colonia, capace di ospitare fino a 600 figli di operai. Grandi spazi verdi racchiudono un villaggio che, nella sua modernità, rimane coerente con il paesaggio alpino. La prematura morte di Mattei portò Corte di Cadore nell’oblio causandone l’abbandono. Nel 2009 le Dolomiti diventano patrimonio UNESCO e questo aiuta la valorizzazione del territorio. È così che dal 2011 grazie al progetto Dolomiti Contemporanee il villaggio alpino può rivivere come centro culturale e fucina d’arte per artisti internazionali.
Clicca qui per vedere tutti gli eventi proposti da Dolomiti Contemporanee.
Ivrea
Embed from Getty ImagesCamillo Olivetti e suo figlio Adriano, sono stati veri visionari dell’industria italiana. La fabbrica di macchine da scrivere nacque ad Ivrea nel 1896, ma la spinta sociale e culturale che creò si respira ancora oggi. La famiglia Olivetti molto affezionata ai suoi dipendenti e attenta alle loro necessità, realizzò nella cittadina piemontese numerosi servizi per gli operai. Luigi Figini e Gino Pollini vennero incaricati di progettare un enorme numero di strutture, sia abitative sia comunitarie: case popolari, asili, scuole e molto altro.
Il paternalismo illuminato promosso dagli Olivetti ha reso questa fabbrica uno degli orgogli italiani. Un’industria colta che ha fatto dello studio e dell’attenzione all’operaio uno dei suoi punti di forza. L’Ivrea olivettiana ora è praticamente morta, nonostante il riconoscimento di patrimonio UNESCO l’eredità storica che ci rimane è stata quasi dimenticata. Gli edifici, ormai completamente vuoti, fanno da sfondo a percorsi tematici di visita che tuttavia non ne valorizzano l’importanza.
Un progetto di riqualifica: la Schio di Alessandro Rossi
Il cortile interno dell’opificio delle Lanerossi di Schio.
«I nostri operai sono troppo abbandonati a se stessi, alle loro povertà e alla loro ignoranza…
Siamo noi padroni responsabili della loro vita morale: noi dobbiamo educare e mutare la loro vita, farne vita civile di uomini e di lavoratori»
– Alessandro Rossi
L’ultimo esempio è anche protagonista di un progetto di riqualifica.
Si tratta della città di Schio e dell’operato di Alessandro Rossi.
La storia di questo lanificio comincia nel 1809 quando l’imprenditore Francesco Rossi fondò a Schio la sua fabbrica. Da piccola impresa di provincia, la Lanerossi divenne un motore trainante dell’economia italiana. Il figlio Alessandro introdusse grandi novità tecnologiche e sottolineò ancora di più l’importanza dell’operaio nell’azienda. Oltre a nuove fabbriche e centrali elettriche, Alessandro Rossi fece rinascere la vita quotidiana di Schio.
Asili, scuole materne, negozi, parchi, ville, case per gli operai: Rossi, fece rinnovare tutto per dare ai dipendenti un caloroso ringraziamento per la loro lealtà e per il loro lavoro. In questo panorama spicca il gioiello del giardino e teatro Jacquard. Un complesso dedicato allo svago per tutti i cittadini. Alessandro Rossi lo fece costruire nel 1859 come regalo alla comunità. Un’area verde ricca di storia, arte e cultura che però non è stata risparmiata dal tempo. Grazie all’iniziativa I luoghi del cuore promossa dal FAI il complesso Jacquard può finalmente sperare in un futuro.
Il cancello d’accesso al giardino Jacquard dominanto dalla statua di Alessandro Rossi
Dal 2016 è partito così un lungo restauro che donerà nuova bellezza al parco. La riapertura non è lontana, quindi ho proposto un progetto di comunicazione per far conoscere il complesso Jacquard. Una nuova identità, dépliant, manifesti, totem informativi, tutto il necessario per rendere nuovamente visitabile questo magnifico posto. I percorsi del parco verranno indicati grazie ai numerosi totem di spiegazione e ai segnali direzionali che accoglieranno i visitatori. Potrà essere realizzato anche un bookshop all’interno della struttura dell’ex teatro. Ovviamente la collaborazione con il FAI sarà fondamentale e quindi ho ipotizzato un gran numero di manifesti e banner per pubblicizzare le giornate di primavere e la riapertura del parco.
Carlo Frapporti,
I anno Grafica e comunicazione (A.A. 2019/20)
Articolo estratto dalla tesi di Laurea triennale dell’Anno Accademico 2018-19
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