Non si tratta di Antiquariato: il Modernariato
Spesso confuso con l’Antiquariato, il Modernariato è una tendenza che in questi anni va molto di moda.
Si tratta di riproporre in chiave contemporanea tutti quegli oggetti prodotti dagli anni 1930 agli anni 1980.
I più amati dai collezionisti sono gli arredi e gli oggetti degli anni Cinquanta e Sessanta, in quanto in essi l’anima dello stile moderno è più viva: infatti, il Dopoguerra è il periodo in cui si afferma una nuova concezione dell’ambiente assieme l’industrial design (nato con l’inizio della Rivoluzione Industriale in Inghilterra), che rende alla portata di tutti e di tutte le case complementi d’arredo e oggettistica all’avanguardia: il bello, la cura dei dettagli, il gusto e la ricercatezza sono i pilastri di questo stile, che richiama un passato relativamente recente, senza cadere nell’antico.
Gli oggetti domestici moderni hanno forme particolari, insolite e si confondono con vere e proprie opere d’arte; questa esclusività li rende strettamente correlati con il design.
I materiali più usati sono naturali: legno, pelle, teak, lino, metallo.
Il più frequente è la plastica, il materiale “povero” d’eccellenza e protagonista di quei tempi.
Con le sue linee curve e gli spigoli dichiarati, lo stile moderno ha caratteristiche inconfondibili: è uno stile pulito, con una semplicità di linee e morbidezza nelle forme. I complementi d’arredo sono spesso aperti e “sollevati” dal pavimento, per dare quella sensazione di aria e libertà.
Anche i colori giocano un ruolo importante nello stile moderno: i complementi d’arredo hanno solitamente colori neutri, come il bianco, marrone, avorio e grigio. Ma non è sempre così, non è raro vedere mobili dai colori accesi.
Se però al mobilio si concedono colori pacati e gentili, lo stesso non vale per gli oggetti. Nello stile moderno il colore nella maggior parte dei casi è usato per attirare l’attenzione su oggetti specifici, ad esempio sculture, vasi e quadri; di conseguenza, i colori più comuni sono principalmente il rosso, il blu, il giallo e l’arancione.
Il colore, oltre alla forma, è la cosa più caratterizzante di questo stile: i colori accesi segnano quel periodo successivo alla guerra nel quale ci si impegnò a ricostruire tutto, con una grande fiducia verso il futuro.
In particolare, l’arancione è segno di ottimismo e positività, non a caso molta oggettistica moderna si presenta di questo colore; sono inoltre le opere arancioni che vengono battute in asta a cifre più alte rispetto agli stessi oggetti di colori differenti.
I grandi maestri dello stile moderno
Gli anni Cinquanta e Sessanta, quindi, sono stati l’apice dello stile moderno: non è un caso che i nomi più importanti del design italiano abbiano contribuito maggiormente in quel periodo della storia, lasciandoci in eredità pezzi unici.
Bruno Munari è stato uno di quelli che ha lasciato un segno non indifferente: “uno dei massimi protagonisti dell’arte, del design e della grafica del XX secolo” (Treccani, enciclopedia), ha dato contributi fondamentali in diversi campi dell’espressione visiva e non visiva con una ricerca poliedrica sul tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell’infanzia attraverso il gioco.
Munari ha disegnato e progettato diversi oggetti d’arredamento (tra cui tavoli, poltrone, librerie, lampade, posaceneri, carrelli, mobili combinabili, eccetera), la maggior parte dei quali per Bruno Danese, suo socio fondatore del marchio Danese.
La Danese nasce a Milano nel 1957. Prende come riferimento l’uomo e i suoi bisogni, prestandosi come luogo di sperimentazione da cui nascono risposte elementari ai bisogni di una società e di un contesto in evoluzione.
Assieme a Bruno Danese, i tre protagonisti di questa azienda sono Enzo Mari, Bruno Munari e Massimo Mangiarotti, che sviluppano prodotti innovativi ed interpretazioni attuali e senza tempo degli oggetti di uso quotidiano.
L’attività di Danese inizia infatti come un laboratorio artigianale per la realizzazione e la vendita di oggetti unici e pezzi d’artista, ma il significativo incontro con Enzo Mari e Bruno Munari, due maestri del design italiano, segna un’apertura alla produzione industriale: nascono cioè oggetti non più indirizzati solo ad un mercato d’élite.
Danese diventa un vero e proprio laboratorio sperimentale aperto, per l’ideazione e la produzione di progetti che affrontano e rispondono ai temi relativi alla vita dell’uomo a casa, a lavoro, nel gioco, nella lettura e nell’arte della comunicazione.
Un altro nome altrettanto importante è Achille Castiglioni, a pieno titolo uno dei più grandi ed influenti designer del Novecento.
Fin da bambino era attento alla forma e al funzionamento degli oggetti in cui si imbatteva, a partire dai giocattoli; come molti progettisti del suo tempo, applicava sui giocattoli materiali e tecnologie innovative.
Anche Giovanni Ponti, conosciuto comunemente come Giò Ponti, è stato un progettista italiano che condusse una carriera unica, partecipando attivamente alla rinascita del design italiano del Dopoguerra.
Ponti ha disegnato moltissimi oggetti nei più svariati campi, dalle scenografie teatrali, alle lampade, alle sedie, agli oggetti da cucina, agli interni di transatlantici. Nel 1928 fondò la rivista di architettura e design Domus, nata come organo divulgativo legato allo stile nella conduzione della casa e dell’arredamento.
Perché il Modernariato vale così tanto?
Sono diversi i fattori che danno un valore effettivo (a affettivo) al Modernariato.
Come già accennato, la ripresa del mobilio e dell’oggettistica anni Cinquanta e Sessanta è il principio del “movimento”. Il Dopoguerra infatti aprì le porte a una nuova mentalità: la voglia di ricominciare da capo, l’ansia di creare, ri-costruire, di stare al passo con le nuove tendenze.
Il perenne rinnovamento diventa uno stile di vita, addirittura uno state of mind.
Questo fenomeno si alimentava nella frenesia: la produzione di oggetti era diventata un abuso, spesso tendenze e mode avevano vita breve perché le persone erano in preda alla caccia del nuovo.
Molti prodotti vennero successivamente gettati perché non rispettavano il principio dell’innovazione. Le cose non duravano, perché non dovevano durare. Bisognava sempre produrre, vendere e comprare.
Fino al 2019 sono giunti pochi pezzi che consideriamo vintage e che vengono battutti nelle case d’asta anche per migliaia di euro, poiché sono testimoni della novità in un epoca, la prima, in cui si aveva fiducia nel futuro e nella tecnologia nuova.
Nel corso degli anni molti filosofi hanno citato poi il fenomeno chiamato post-modernismo (1970-1990): la crisi della frenesia del nuovo. Ci si rende conto che le ricerca del nuovo è una via senza uscita e si insinua così il dubbio nel futuro, nell’innovazione e nella ricerca.
Attualmente la ripresa dei pezzi di modernariato, introducendoli nella realtà contemporanea è, in un certo senso, simbolica. È un richiamo in termini nostalgici a ciò che era prima; vale a dire che se un’oggetto è stato fortemente innovativo a suo tempo lo sarà sempre, non importa quanto passato sia; non sarà mai pacchiano o troppo vecchio, sarà sempre quel dettaglio al posto giusto che fa la differenza.
Difficilmente ci si sbaglia quando c’è di mezzo il Modernariato.
Inoltre, è importante andare avanti guardandosi indietro, ci aiuta a fare i nostri primi passi e quelli successivi con consapevolezza.
Lo stile moderno ha fatto la storia e, come ben si sa, la storia ha molto da mostrarci, da raccontarci e da insegnarci. Chi è venuto prima di noi, i grandi nomi del design italiano, ci ha lasciato in eredità la propria esperienza e conoscenza ed è un bene fare tesoro di esse, rendendole parte di noi e della nostra contemporaneità.
Melissa Okyay
II anno del corso di Decorazione – Interior Design
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