Conferenza sull’arte FuoriNorma
Ma tu che senso hai?
Solo per un momento immaginiamo che sia quasi sera, o meglio uno di quei pomeriggi di fine novembre dove si riesce quasi a percepire il senso dell’avvicinarsi dell’inverno perché alle cinque e mezza il sole non si vede già più.
Indaffarati nelle nostre faccende non ci accorgiamo che i lampioni fuori dalla finestra non si sono ancora accesi, e che le luci dei portoni delle case vicine iniziano a spegnersi, una dopo l’altra.
La nostra vista si fa sempre più affaticata e le parole sempre più difficili da leggere.
Tutto intorno a noi inizia a diventare più buio, le luci che fino ad un attimo fa illuminavano la stanza si spengono, non come se fosse saltata la corrente improvvisamente ma quasi al rallentatore, via via sempre più fioche fino a rimanere completamente al buio.
Anche gli apparecchi tecnologici hanno smesso di funzionare: computer, telefoni, lavatrici e frigoriferi, pure quell’odiosa lucina rossa del televisore, che quando stai per addormentarti sembra puntarti dritto negli occhi per non farti dormire, anche lei, ultimo baluardo della tecnologia si è spenta.
Tutto riposa, in silenzio.
Nessuna luce d’emergenza, nessun dispositivo a illuminare o con cui comunicare, neanche la torcia del telefono che teniamo sempre in tasca ha deciso di funzionare.
Immaginiamo un blackout completo che farebbe sprofondare tutto nell’oblio, come ciechi allora vagheremmo scollegati e soli, con le braccia protese in avanti cercando di capire quello che ci circonda.
È, forse, solo allora che ci accorgeremo che in verità il mondo che vediamo e osserviamo tutti i giorni in realtà non lo conosciamo affatto, o meglio, lo conosciamo solo in modo superficiale.
Quante cose diamo per scontate, quante sensazione provenienti dalla vista non prendiamo minimamente in considerazione.
Forse è solo quando uno dei nostri sensi viene meno che ci accorgiamo degli altri, come scrive Oriana Fallaci:
«Come un tale che non si ricorda di avere le orecchie perchè ogni mattina se le ritrova al suo posto, e solo quando gli viene l’otite si accorge che esistono».
Ci accorgeremmo forse che la vista non è l’unico modo per percepire il mondo?
Che non siamo solo occhi, e che forse ci stiamo perdendo una parte di realtà?
È il buio totale che forse ci renderebbe capaci di notare le piccole cose come sentire il gocciolio dell’acqua di un termosifone appena acceso, la stoffa dei vestiti a contatto con la nostra pelle, il nostro respiro, il sapore del caffè ancora in bocca o il tepore della stanza che piano piano si sta riscaldando.
«Ma tu che senso hai?» è la domanda che si è posto quest’anno FuoriNorma – festival che riflette su arte e disabilità – per capire cosa succede quando il nostro corpo subisce delle modificazioni; come appunto la mancanza di uno dei cinque sensi influenzi la visione e la percezione del mondo e come anche alcuni artisti lavorino e si confrontino con delle disabilità.
Di questo interessante appuntamento, ormai giunto alla terza edizione, siamo stati coinvolti anche noi studenti partecipando alla conferenza “L’arte secondo natura” tenuta dalla critica teatrale Anna Detheridge, con interventi del vicesindaco e assessore alla cultura del Comune di Brescia, Laura Castelletti, l’artista Albano Morandi, il critico teatrale per il Sole24Ore Antonio Audino e il nostro docente di Progettazione Multimediale I, Paolo Fossati.
Ci è stato infatti proposto di partecipare attivamente con domande o spunti di riflessione dal nostro professore, che, nonostante il corso sia finito, probabilmente non si è ancora stancato di noi.
Abbiamo ragionato, con il suo aiuto attorno a questo tema, in modo che diventasse, come ha detto Beatrice Faedi – attrice e organizzatrice dell’evento insieme ad Antonio Audino – «un momento di scambio e riflessione per il futuro».
È questo che FuoriNorma cerca di proporre, una visione diversa, che coinvolga il corpo come il primo spazio in cui l’artista opera, un elemento vivo, a volte anche segnato, sofferto, ma non per questo incapace di comunicare, anzi sono proprio quei segni lo stimolo che rende l’urgenza di comunicare ancora più forte.
L’artista performativo, dopo aver preso atto del suo corpo, come veicolo per esprimersi, si deve confrontare con lo spazio che lo circonda o nel quale è chiamato ad intervenire. Ed è stato proprio questo spazio l’argomento sul quale Chiara Huang ed io abbiamo ragionato.
Tutto è partito da due diverse elaborazioni: la prima nasce da un ragionamento che coinvolge diversi corsi in Accademia e che riguarda la figura del museo come istituzione e di come esso debba aprirsi alla comunità.
Non più un Museo Tempio, chiuso nel suo scrigno dorato il cui accesso è permesso solo a una cerchia ristretta di eletti. L’idea è invece un Museo Forum, aperto verso l’esterno e attivo nell’instaurare e favorire un dialogo con il visitatore.
Il secondo punto di vista, quello di Chiara, invece è legato al fatto che in centro città esistevano, ed esistono ancora, molti negozi chiusi, vuoti, le cui sterili vetrine non trasmettono più niente alle persone che vi passano davanti.
Da questa osservazione è nata perciò l’intuizione di poter utilizzare questi spazi in modo diverso dal solito, trasformandoli in una sorta di white cube in cui gli artisti possano comunicare la propria arte infiltrandosi direttamente all’interno del contesto cittadino. Riempiendo un vuoto con qualcosa invece di vivo, creando connessioni ed emozioni:
«Io che faccio teatro vi ascolto e penso al corpo e alla persona viva che abita lo spazio, è una riflessione, questa, che ci sta molto a cuore, spazi da abitare e da rendere vivi. Penso che siano le persone fisiche che abitano questi spazi, che addirittura li occupano, che li invadono, anche fuori norma» – Beatrice Faedi
Lo scopo però non è solo quello di ridar vita a spazi inutilizzati, ma sopratutto quello di portare l’arte contemporanea fuori dagli spazi consueti in cui siamo abituati a incontrarla, fuori da musei e gallerie per farla invece vivere in strada, in città, a contatto con le persone.
Far conoscere ad un pubblico più ampio un’arte, quella della performance, che viene considerata come un’arte più difficile per un pubblico di “non addetti ai lavori”, portandola direttamente ai cittadini senza aspettare che siano loro a venire a cercarla.
Uno spazio che si pone fuori dalla norma è capace più di altri di mettere in dialogo lo spettatore con l’opera d’arte.
Anna Detheridge spiega come l’uscire dai canoni dello spazio permetta non solo agli artisti di trarre ispirazione dal contesto in cui stanno lavorando, ma risulta un aggancio molto forte anche per i visitatori stessi:
«Molto spesso la galleria con le sue pareti bianche è una sorta di Chiesa laica in cui quello che si inserisce al suo interno serve per esaltarne il prestigio ma non aiuta la capacità di vedere e leggere le opere da parte delle persone».
Anche Michela Lucenti di Balletto Civile ha spiegato come sia difficile fare teatro all’interno di un contesto istituzionale in quanto lo spettatore che va a teatro arriva aspettandosi qualcosa, mentre questo non accade in contesti e spazi differenti:
«Molto spesso però ci rendiamo conto che culturalmente quando si va a teatro, e forse questo avviene anche nell’arte, il pubblico arriva aspettandosi qualcosa di molto preciso perché culturalmente noi vogliamo qualcosa quando ci sediamo davanti ad un palco».
Antonio Audino ha spiegato:
«La forza dello spettacolo dal vivo e del teatro è proprio quella di consentire un’esperienza.
Credo che molto pubblico abbia capito questo».
Il teatro o la performance permettono un approccio multisensoriale nello spettatore che vi assiste ed è un’esperienza unica perché nella replica del giorno seguente sarà diverso.
Permettere un’esperienza reale è fondamentale al giorno d’oggi per far comprendere che il mondo è molto più vasto di uno schermo del cellulare o di un computer, che ci sono sensazioni che lasciamo in secondo piano perché il nostro cervello viene sovraccaricato di immagini.
Anna Detheridge durante la conferenza ha detto:
«È proprio perché siamo fatti di carne e ossa e non siamo fatti per esperire il mondo soltanto attraverso uno schermo».
Se vogliamo rimanere degli esseri empatici dobbiamo renderci conto di questo scarto, di questa differenza tra mondo reale e mondo virtuale.
Non possiamo negare nella società contemporanea l’esistenza della tecnologia, ma dobbiamo riuscire a non dipendere da essa, a non esserne schiavi.
Ritornare a stringere legami con il reale, con il nostro corpo, con i nostri sensi.
Spegnere, staccare, per tornare in contatto con il mondo, con noi stessi.
Nel racconto Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, che dà il nome alla raccolta, Raymond Carver scrive:
«Sentivo il cuore che mi batteva.
Sentivo il battito del cuore di ognuno.
Sentivo il rumore umano che producevamo tutti, lì seduti, senza muoverci, nemmeno quando la stanza diventò tutta buia».
Beatrice Da Lan – Chiara Huang
III anno del corso di Didattica dell’Arte per i Musei #TeamDidattica
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