Cosa possiamo fare per la pace?
Sentire il bisogno di fare qualcosa quando si assiste a terribili episodi di violenza è un sentimento umano tra i più nobili e che dovrebbe essere alimentato in ogni modo, essendo la base di ogni ipotesi di convivenza civile.
Questa spinta a “fare qualcosa” è figlia del sacrosanto desiderio di riconquistare la pace, o quanto meno una situazione percepita come pacifica, che viene minacciata, incrinata, o pregiudicata dall’azione violenta.
Tale desiderio è condiviso da tutti gli esseri umani (o almeno dalla stragrande maggioranza di essi). Ciononostante le guerre sono sempre esistite e, in ogni epoca, hanno visto la partecipazione di tutte le civiltà.
Anche per questo, il tema della pace, oltre ad essere sempre stato sentito come urgente e di primaria importanza, è anche uno dei più difficili da affrontare, essendo un problema irrisolto della storia dell’umanità.
Se questo è vero, è altrettanto vero che nelle diverse epoche, in parte, è mutato il modo di affrontarlo. Fatte salve alcune istanze fondamentali che rimangono costantemente valide, parlare di pace e di guerra oggi, nel cosiddetto ‘mondo globalizzato’, pone delle questioni differenti da quelle preminenti nell’antichità, nel medioevo, o anche solo all’inizio del secolo scorso, o nel 1945.
Probabilmente una delle più grandi sfide della nostra epoca, che la differenzia da molte di quelle passate, consiste proprio nel definire cosa intendiamo per guerra e per pace. Al contrario di quanto è sempre accaduto, infatti, anche il semplice rispondere alla domanda se siamo in pace o in guerra può essere molto difficile. Lo è anche ora, dopo gli attentati di Parigi e tutto ciò che ne è seguito.
Anche se ci limitassimo – molto ingenuamente – ad attenerci alla definizione del dizionario, vale a dire a considerare che si è in guerra quando si affrontano degli eserciti di diversi stati – o di due fazioni all’intento di un medesimo stato –, saremmo in difficoltà a rispondere a questa domanda.
Ufficialmente, infatti il nostro paese non è in guerra con nessun altro (né tanto meno al suo interno si sta svolgendo una guerra civile). Ciononostante l’esercito italiano è presente in vari paesi del mondo, essendo impegnato nell’ambito di una trentina (circa) di cosiddette “missioni di pace” sulle quali non è facile reperire informazioni precise.
Tali missioni peraltro diventano oggetto di discussione solo in occasione di tragedie, oppure quando in parlamento se ne discute il finanziamento.
Quante sono esattamente? Quali sono le attività condotte dai nostri militari? Quanti scontri a fuoco accadono ogni anno che vedono coinvolti soldati italiani? Sfido chiunque a reperire dati esaustivi e attendibili in grado di rispondere a queste domande. E allora com’è possibile affermare che “siamo in pace”? E, se non lo siamo, con chi siamo in guerra?
E tutto ciò – lo ripeto – partendo dall’assunto che si possa parlare di guerra solo in presenza di azioni militari.
Le azioni terroristiche generalmente non sono compiute da eserciti regolari e quindi, a rigore, non dovrebbero essere contemplate nei discorsi sulla guerra. Eppure chi di noi, di fronte ai fatti di Parigi, non ha pensato che si trattasse di azioni di guerra?
I primi a pensarlo, d’altronde, sono stati i membri del governo francese che, un giorno dopo gli attentati, prima ancora di arrestare e interrogare i responsabili e prima ancora di processarli e di accertarne i moventi, hanno inviato i propri aerei a bombardare a tappeto la città di al-Raqqa, la cosiddetta “capitale dello Stato Islamico”, colpendo nuovamente in questo modo quella popolazione che già aveva sofferto le conseguenze della guerra tra esercito siriano e miliziani dell’ISIS.
Anche qui possiamo domandarci: è in guerra la Francia? Se sì, chi l’ha deciso? Quali sono gli obiettivi di questa guerra? Siamo certi che i mandanti degli attentati i Parigi risiedano ad al-Raqqa? È ragionevole pensare che questa rappresaglia – ammesso e non concesso che sia nata a partire da un impulso simile a quello evocato all’inizio di questo scritto – favorisca il ristabilimento di una situazione di giustizia e di pace?
Credo che “fare qualcosa per la pace” significhi innanzitutto cercare di rispondere a queste domande, prima ancora di pensare a porre in atto delle azioni.
Il rischio altrimenti è quello, se non di compiere azioni dannose, di fare cose inutili, di scadere nella retorica. Come sottolineava nel 2003 l’Arcivescovo Renato Martino – allora Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia е della Pace – presentando l’Enciclica Pacem in Terris (ed echeggiando il Catechismo della Chiesa Cattolica):
Pace non è assenza di guerra; non è nemmeno essere contro qualcuno che vuole la guerra; non è in nessun caso difesa preventiva, perché mai si devono colpire presunti o veri nemici prima di essere colpiti.
La pace è il risultato di una ricerca, di un darsi da fare, di un mettersi all’opera per comprendere chi siamo realmente, qual è il nostro vero bene, nella consapevolezza, che da sempre proviene dal Magistero della Chiesa, del fatto che l’uomo è capace di bene ed è stato messo in grado di giungere alla Verità, seppure nella contingenza della storia.
D’altro canto, in riferimento a un concetto di pace non frutto di ricerca e figlio di una serie di azioni di ‘delega’, il Cardinale Giacomo Biffi, nel suo discorso per la Giornata della Pace del 1997, faceva notare come:
Per impedire la guerra a volte basta una rete di abili mediazioni o un gioco di interessi comuni. Altre volte basta l’equilibrio delle prepotenze e delle paure. Ma così lo spazio lasciato alla pace è infido, malsicuro, provvisorio.
Così non si impedisce l’assurdo rinascere di nazionalismi sempre protesi a rivendicazioni e a rivalse. Così continuano a dominare i potentati economici multinazionali, ispirati da antagonismi egoistici. E si assiste ancora al commercio di armi micidiali, con popoli che dovrebbero piuttosto essere provveduti di mezzi di istruzione, del cibo, di medicine; armi che poi, quando sono poste tra mani irresponsabili, finiscono presto o tardi coll’essere usate.
Nell’ottica cristiana, quindi, essere “operatori di pace” è rinunciare alle convenzioni e alle opere di mediazione sulle quali non abbiamo il controllo per impegnarsi in una ricerca tesa a comprendere chi siamo, anche in relazione alla contingenze storiche nelle quali viviamo.
Qualsiasi iniziativa concreta, comune di costruzione della pace deve nascere da questa ricerca; oggi, forse, più che mai.
Ciò premesso, rivolgendomi a un’istituzione come l’Accademia SantaGiulia, della quale mi onoro di far parte, posso suggerire due possibili linee d’azione.
La prima riguarda la sua natura di istituzione culturale di ambito umanistico. Per svolgere in modo adeguato i compiti connessi con questa nostra natura, in relazione al tema della pace, dovremmo farci promotori di una ricerca tesa a cogliere il significato che diamo oggi ai termini “pace” e “guerra”.
Questo perché è compito di un’istituzione culturale chiamare le cose col loro nome, favorire dei processi che dal disordine portino all’ordine, e stimolare la riflessione sulla nostra identità e i nostri valori. Naturalmente, in quest’ottica, il significato dei termini in questione non andrebbe inteso in direzione di una ricerca puramente personale, ma di percorsi verso idee e linee d’azione condivise, utili a concepire interventi concreti nella realtà storica e sociale.
Gli strumenti da utilizzare per stimolare tale ricerca potrebbero essere quelli classici accademici (studi, ricerche, seminari), senza dimenticare tuttavia che tutto ciò dovrà poi sfociare in prodotti artistici realizzati da nostri studenti.
Una seconda possibile linea di azione riguarda invece la nostra natura di agenzia di formazione. In questo senso, la nostra vocazione dovrebbe spingerci a pensare di poter offrire la nostra opera di professionisti della didattica a comunità duramente colpite dalla guerra (vale a dire, riprendendo le parole del Cardinal Biffi, rivolgendoci a quei: «popoli che dovrebbero piuttosto essere provveduti di mezzi di istruzione»).
Questo naturalmente si può fare o attivando un’iniziativa autonoma dell’Accademia, o confluendo in progetti già in corso, magari promossi da soggetti in qualche modo legati al nostro Gruppo o, quanto meno, che ne condividano le finalità etiche.
Credo che solo in questo modo, vale a dire facendo bene e con passione il nostro lavoro, e declinandolo su temi e iniziative specifici potremo riuscire ad essere veramente operatori di pace.
Professor Carlo Susa
Coordinatore della Scuola di Scenografia dell’Accademia SantaGiulia
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